Ecco un’altra puntata del racconto delle/dei partecipanti all’interno del percorso di laboratorio urbano nelle periferie delle città. Per la tappa romana a Tor Sapienza Mateja Schmidt ci presenta una breve considerazione su come recuperare i paesaggi urbani.
Ecco il suo racconto.
Conoscenza e osservazione: prendersi cura e prendersi spazio
Ci siamo abituati fin troppo a questo scenario: lo spazio urbano, soprattutto quello legato alla classe operaia, come immagine di tristi edifici grigi in cui nessuna anima vorrebbe abitare, se avesse la possibilità di scegliere.
Nate come centri di aggregazione al solo fine della produzione e della forza lavoro, anche le città più ricche d’Europa condividono i loro quartieri di “Plattenbau” o sterili case borghesi. Sono contesti in cui ciò che è fuori di noi ci appare come altro, come massa indistinta, al di fuori del nostro orizzonte.
Le righe seguenti propongono l’atteggiamento della cura, come processo generale – in questo caso attraverso l’esempio delle piante selvatiche urbane – come antidoto all’indifferenza e al disagio emotivo che troppi contesti urbani ci creano.
Tra tutto il cemento e i colori secchi, c’è una forma di vita, spesso scambiata per un segno di degrado urbano: le erbacce. Il nome da solo implica “qualcosa che non dovrebbe essere lì” o che non appartiene a dove si trova. Ma gli approcci indigeni, tradizionali e rinnovati alla Botanica e all’Agricoltura ci mostrano proprio il contrario: la natura produce solo ciò che è necessario, e soprattutto quelle piante erbacee e resistenti sembrano svolgere un ruolo importante come piante cosiddette pioniere: Riescono a prosperare su terreni estremamente deprivati e sono in grado di estrarre da essi o metabolizzare nutrienti per sé e per le piante che verranno dopo loro. Tradizionalmente, sono stati alleati dell’umanità come piante medicinali e commestibili.
Se iniziamo ad osservare, nominare e comprendere la funzione di questa forma verde dell’abitare, che è pronta ai nostri piedi, operiamo un primo importante passo verso un atteggiamento di cura di ciò che ci circonda: l’osservazione.
Lo spazio intorno a noi diventa meno qualcosa di “altro” e più parte della nostra percezione. L’altro si trasforma in elementi che vediamo e che compongono il nostro spazio.
Una volta che siamo in grado di percepire addirittura le erbacce come un costante tentativo di ricostruire un ecosistema, iniziamo a capire che anche le città hanno un ecosistema, fatto di ritmi, forme di vita e strutture diverse. Riconosciamo che ogni cosa ha un suo ruolo e senso, anche quando questi spesso sfuggono all’occhio superficiale. Osservare lo spazio urbano e i suoi continui, seppur piccoli, cambiamenti nel corso dei giorni, dei mesi e degli anni significa comprenderlo, e con la comprensione nasce l’empatia e la capacità di intervento. L’osservazione e la curiosità che deriva dalla comprensione che ciò che è al di fuori di noi stessi non è una grande massa grigia di alterità ci consente di prendere decisioni nei confronti del nostro ambiente e di viverlo come desideriamo. Questo è un tipico processo umano, che la nostra specie ha messo in atto fin dagli albori della nostra esistenza nel costruire lo spazio che ci circonda prendendosene cura attraverso la pianificazione, l’architettura, le strutture e il giardinaggio.
Invitando di nuovo le piante nel nostro orizzonte (sono già lì!) di osservazione possiamo iniziare un processo verso la cura di un
ecosistema.
Non senza ragione questo nome indica un insieme di fattori che vivono tra di loro secondo certe regole, proprio come cercano di fare le nostre erbe urbane.
L’ispirazione di Mateja viene dall’incontro con lo spazio verde intorno al Centro Culturale Michele Testa, sede delle attività a Tor Sapienza. Ecco qualche scatto di Simone Ridi che ci fa intuire le potenzialità del luogo.




