Saliti sul treno Prato/Bologna in direzione quartiere Pilastro, con un appuntamento già fissato. Si tratta di Lino, referente del Blog Pilastro Bologna, nato nel 2016 dall’esigenza di raccontare una versione della storia interna ai residenti. La redazione è composta da una decina di cittadine e cittadini abitanti, che si definisce “rione situato nel distretto Nord Est nel quartiere San Donato a Bologna”.

Approdare in un luogo nuovo rimane per me un momento rituale, fatto di azioni familiari che ormai eseguo quasi automaticamente. In genere scendo dal bus o dal treno distrattamente, faccio un giro su me stessa e osservo il panorama che mi si apre davanti, tendendo l’orecchio per amplificare il senso di orientamento che entra in azione e coinvolge i sensi tutti. L’arrivo al Pilastro invece ha subito modificato la mia routine; inaspettatamente Lino ci aspettava alla fermata del bus, accogliendoci con un sorriso e il riparo di un ombrello di fronte alla pioggia che proprio in quel momento ha deciso di cadere.
Non sò allora descrivere il tragitto iniziale, distratta dalle presentazioni e dalla cortesia dei gesti dovuti rispetto ad una prima conoscenza. Mi ha però subito colpito la grande estensione e il respiro del paesaggio percepito con il corpo, esposto ad un vento che non trovava ostacolo e la strada ampia che evidentemente è una via principale in ingresso e uscita dalla città. La conversazione è piacevole e scopro quasi subito che ci troviamo in un rione, una porzione del quartiere San Donato che Lino precisa essere di natura unica ma soggetta ad un accorpamento amministrativo che unisce servizi e competenze ma non tipologia di abitato ne abitanti.

La sensazione di trovarmi in un luogo sicuramente con tante “cose da dire” arriva già davanti alla nostra prima sosta. Dallo stradone principale, svoltando repentinamente in una stradina che sembra secondaria mi trovo davanti un casale di fine ‘800. Una serie di cartelli colorati descrive le diverse attività dello spazio. E’ una fattoria didattica, con orti urbani, un forno di comunità, un piccolo edificio adiacente dedicato alle attività di laboratorio, una stalla con diversi animali da cortile.









Ad accoglierci troviamo Antonio, intento a trasportare i ceppi di legno per accendere il fuoco nonostante la giornata piovosa. Lino ci presenta, ci sediamo sotto una tettoia al riparo dalla pioggia sul retro della cucina, abitata da alcune signore intente a preparare per il pranzo sociale.
Scopriamo da Antonio che il Pilastro come quartiere abitato è un luogo relativamente recente. Viene infatti concepito come quartiere popolare per ospitare nuovi lavoratori provenienti dalle aree del meridione ma anche dal nord Italia, dal Friuli al Veneto e anche altre province emiliane quali il ferrarese. Era – “un posto completamente nuovo, non completato” dove all’arrivo dei primi nuclei di abitanti i servizi erano ancora carenti. “l’autobus di fermava a San Donnino, non c’erano scuole, non c’era nulla” continua Antonio – “le persone dal quartiere per andare a trovare un negozio o qualsiasi altra cosa dovevano spostarsi a Bologna, il Pilastro era un luogo molto periferico”.
Gli abitanti si accorsero subito di dover gestire le problematiche legate al nuovo abitare. Trovarono quindi forme di autorganizzazione creando le proprie figure di riferimento, anche indirizzati da alcuni componenti del partito comunista locale. Racconta Antonio di essere venuto recentemente a conoscenza della storia di un “signore che aveva aperto un piccolo bar nella casa vecchia, per aiutare” e come gesto simbolico acquistava alcune copie dell’Unità la domenica dal giornalaio per distribuirle. “Una cosa straordinaria” – Antonio è stato segretario della sezione del partito comunista locale e si definisce “nuovo pilastrino”, per affermare che già qualcuno prima di lui aveva fatto la storia del Pilastro.
Il primo nucleo auto organizzato, nato subito dopo l’assegnazione della prima casa nel 1966, si era definito comitato inquilini. Viene descritto da Lino e Antonio come il motore di tutta la trasformazione del Pilastro, a partire da quello che doveva essere il progetto iniziale urbanistico a quello che poi è stato realizzato sotto “indicazioni, pressioni, lotte” degli abitanti riuniti nel comitato che prende in mano il progetto di un quartiere popolare ideale, modello di quegli anni, approvato in via definitiva dalle amministrazioni pubbliche, e lo rimodella sulle necessità e sulle esigenze di chi vi risiede. In particolare l’accento si pone sull’opposizione portata dai cittadini rispetto al consumo di suolo relativo alle cubature edificabili, per preservare il paesaggio immerso nel verde così come si era presentato davanti ai primi coloni.

Antonio ci svela la sua età, ha 74 anni, originario di Torre Annunziata, ed è abitante del Pilastro dal 1970. Ci racconta ancora della composizione del comitato, capillare nella presenza dei palazzi. Ogni scala aveva il proprio capo scala, che raccoglieva istanze e problematiche e le riportava ai responsabili, riuniti in un direttivo, con una segreteria e una sede fisica per riunioni, incontri, dibattiti. Scopriamo che proprio da questa esperienza unica nasce il primo nucleo del sindacato SUNIA, oggi ente nazionale. Ci ribadisce più e più volte la ricetta della buona vivibilità del quartiere; il comitato è sempre stato ottimo interlocutore dell’amministrazione, libero e autonomo, attivo e politico ma non partitico, all’interno erano rappresentate tutte le forze politiche.
Grandi manifestazioni attraversano questa storia, quella per la costruzione della scuola, per la manutenzione di strade e illuminazione, l’impegno per installare un riscaldamento collettivo con un nucleo di cittadini che si inserisce nella gestione della centrale termica prossima al quartiere, generando un risparmio anche economico per i residenti. La svolta rispetto alla natura abitata del Pilastro arriva nel momento in cui si pone la necessità di non destinare il costruito solo ad edilizia popolare ma anche all’abitato privato che porta nel quartiere altri tipi di famiglie e diversifica le fasce di reddito, dando respiro a situazioni critiche che si stavano creando. In questo contesto nuovo la Fattoria in cui siamo ha avuto un ruolo fondamentale: punto fisico di aggregazione, circondata da orti sociali e dunque anche fonte di sostentamento.



Lino e Antonio ci raccontano molte altre storie e ci aprono alla geografia del Pilastro, indicandoci ora il parco arboreto adiacente alla via a sinistra a segnare il limite dell’antica campagna, ora il centro commerciale, la posta, il palazzetto dello sport a destra, come punti su una mappa assolutamente da visitare. Il discorso vira improvvisamente e il tono della conversazione cambia. Antonio ci parla della strage dei carabinieri al Pilastro, avvenuta il 4 gennaio 1991 ad opera della Banda della Uno bianca, un’organizzazione criminale composta, si scoprirà, da agenti di polizia. Un “periodo duro e difficile” che ha segnato e ancora segna in modo forte la narrazione di questo quartiere. La reazione all’omicidio crea per diversi anni diffidenza e divisione tra gli abitanti. La situazione si inasprisce all’arrivo di migranti di origine straniera e alla decisione dell’amministrazione di trasferire all’interno di un edificio scolastico mai aperto, abitanti di un ex campo nomadi chiuso. Attorno all’edificio si creano momenti di tensione e di rabbia che devono essere mediati negli anni e che ancora oggi rappresentano nodi non del tutto risolti.
La lunga chiacchierata, viene animata dai numerosi interventi di pilastrini che si trovavano a lavoro nello spazio per l’organizzazione del pranzo e si conclude con un invito a tornare in un periodo meno piovoso per godere delle tante attività che animano tutto il quartiere dalla primavera all’autunno. In particolare alcune ragazze che si occupano della didattica e degli eventi legati alla cittadinanza alla Fattoria ci suggeriscono di tornare in occasione del Festival della Zuppa, che ogni anno ,prima del covid, si svolgeva nel periodo di fine aprile.
Salutiamo Lino, contattato dalla famiglia per pranzo, e ci diamo appuntamento nel pomeriggio per godere della sua compagnia nella seconda parte della giornata. Mossi dall’orario e dai profumi del pasto decidiamo di fermarci poco dopo al ristorante Porta Pazienza “primi, secondi e ultimi”. Anche questa sosta ci apre ad una storia, il racconto dell’origine dell’attività (ex pizzeria Fattoria di Masaniello) gestito dalla cooperativa sociale La Formica, aperta su un progetto etico che prevede utilizzo di prodotti provenienti dai beni confiscati alle mafie, prodotti bio da agricoltura sociale e prodotti realizzati nelle carceri italiane. Anche l’impiego del personale riguarda l’occupazione di categorie fragili. Sulla tovaglietta del pranzo e nelle infografiche è spiegato tutto il “progetto sociale” e volentieri assaggiamo le prelibatezze che ci vengono portate al tavolo.
Ristorati e finalmente baciati dal sole decidiamo di esplorare i luoghi che ci sono stati indicati. Incontriamo quasi subito il centro commerciale artigianale, un edificio rettangolare, esteso su un unico piano, caratterizzato all’interno da una grande piazza coperta con una struttura di ferro rosso, con attività artigianali, commerciali e di servizi.

Scopro che lo stabile è stato inaugurato nel novembre del 1983 ed è il risultato di una collaborazione tra i piccoli commercianti ed artigiani del quartiere con i cittadini stessi. Nel parcheggio di fronte si trova l’edicola che sembra chiusa da tempo e, sollevando lo sguardo, si stagliano dietro l’edificio le alte torri palazzo.

Decisi ad arrivare nel cuore del quartiere, proseguendo lungo la strada che sembra la via principale, attorno a noi il paesaggio cambia ancora e i palazzi alti di edilizia popolare da un lato e le torri dall’altro definiscono il lungo processo di urbanizzazione dell’area secondo i gusti degli ultimi decenni del secolo scorso. Al centro il parco cittadino, intitolato ai tre carabinieri uccisi, il monumento che li ricorda e due strutture coloniche, la Casa gialla e la Casa rossa, che ospitano la biblioteca intitolata a Luigi Spina, primo presidente del Comitato Inquilini. Lino ci racconterà in seguito che tra le due strutture è in previsione la costruzione del MUBA, Museo dei bambini e delle bambine, pensato come collegamento tra gli edifici con la minima occupazione possibile di suolo per evitare di perdere il verde pubblico, “il bene comune da proteggere oltre ogni progettualità”.



Ci avviciniamo al complesso edilizio di Via Pirandello, indicato nel racconto di Antonio come il primo abitato del Pilastro. Gli edifici di otto piani formano una linea curva che si estende senza pause e ci obbliga a proseguire e a percorrere tutto il perimetro che delimita il parco. Sul limite esterno gli edifici cambiano ancora e troviamo una serie di alti palazzi che prevedono al piano terra un uso commerciale dei fondi, per la maggior parte sfitti, e ritroviamo i portici, che da anni identificano, nel mio vissuto girovago, le città emiliane. La percezione di essere arrivati all’origine della storia, di aver camminato attraverso il tempo dei racconti che ho ascoltato, è molto presente e mi lascio condizionare dall’idea che il progetto iniziale prevedeva un raddoppio del costruito e la sparizione dell’ambiente naturale che oggi rappresenta il secondo polmone verde di Bologna.
E’ domenica pomeriggio, il tabaccaio e il bar sono chiusi, non c’è nessuno in giro; quanto deve sembrare diverso questo luogo durante la settimana, brulicante di persone che a tutte le ore salgono e scendono dalle case, si affacciano ai balconi per tendere i panni, parcheggiano le auto, si prendono un caffè, tornano con le buste della spesa e fanno due chiacchiere prima di rientrare.
Decidiamo di trovare una panchina dove attendere l’orario per incontrare Lino e attraversiamo, tagliando trasversalmente, il parco. Superate le torri si apre davanti a noi un ellisse verde con, al suo centro, un’arena e un palco. La sensazione è quella di affacciarsi ad un balcone dopo essere passati in uno stretto corridoio. La cornice esterna di questo ampio semicerchio è subito riconoscibile, si tratta del Virgolone, l’emiciclo di condomini dove le case dell’Ente di gestione pubblica Acer si mescolano a quelle di proprietà, progettato dagli architetti Paolo Bettini e Marco Ferrari. Questa parte del Pilastro lo definisce nell’immaginario collettivo, dopo l’esplorazione della mattina a me sembra solo una parte quasi marginale del racconto.
Ci dirigiamo verso il centro della conca attirati da gruppi di statue che partono da lontano per confluire verso il palco in legno e pietra del teatro. Il cartello accanto a noi identifica il parco “P.Pasolini”. Facendo un giro su me stessa mi rendo conto della varietà del paesaggio che mi circonda, con il Virgolone a sinistra e le Torri a destra mi trovo a percorrere una processione tra gli alberi accompagnata da figure dai tratti umani di pietra, prima solo abbozzate e poi sempre più definite. Incuriosita cerco l’origine di questa installazione sicuramente artistica. L’opera è stata realizzata tra il 1974 e il 1984 dallo scultore Nicola Zamboni, ed è un complesso di oltre 200 figure umane a grandezza naturale. La maggior parte delle statue percorre lo spazio formando una sfilata che attraversa quasi interamente l’area verde, fino ad arrivare alla definizione umana più alta data dall’Arte e dalla Cultura incarnata dall’arena teatrale e dai grandi bassorilievi di pietra alle spalle delle gradinate.



Il tempo è passato molto velocemente e raggiungiamo nuovamente Lino che ci aspetta di fronte alle Torri per fare un secondo giro. Ci aveva lasciato con la promessa di svelarci l’origine del nome Pilastro e, impazienti di scoprirlo, ci dirigiamo con lui nuovamente ai margini del quartiere. Ancora un’altra immagine si apre davanti a noi, costeggiando un alto muro da un lato e una siepe spinosa dall’altro lo sguardo è attirato da un complesso di case che presenta una struttura completamente diversa dall’abitato incontrato fino ad ora. Chiedo notizie a Lino che definisce l’area come “Villaggio San Giorgio” , una serie di palazzi di tre piani circondati da portici con, al centro, un’ampia zona comune ben attrezzata. Alberi e Panchine, cestini e una strada pedonale disegnata dal mosaico di pietre sul terreno. Gli alberi hanno perso le foglie per l’inverno e si è formato un tappeto color giallo oro che illumina tutta la passeggiata. Le case, in mattoncini rossi tipici emiliani sono sicuramente nuovo costruito rispetto a ciò che abbiamo incontrato e Lino ci parla dei suoi abitanti come degli ultimi arrivati nel quartiere, un villaggio nel villaggio.



Al limite dello stradone dal quale siamo arrivati la mattina ecco un piccolo tabernacolo circondato da un roseto. E’ un pilastrino votivo con un’immagine sacra da cui prenderà poi il nome tutto il quartiere. Situato all’incrocio e quasi ricoperto dai cartelli di segnaletica stradale, ha sul fronte una preghiera “Maria, madre di Dio, prega per noi”.
Anche la strada è denominata Via del Pilastro e ci incamminiamo costeggiando un parco sulla destra e le case sulla sinistra. Il Parco mi colpisce particolarmente per i suoi colori accesi che vanno dal giallo all’oro al rosso, dato dalle numerose varietà e provenienze di alberi presenti, che rappresentano una grande ricchezza di biodiversità vegetale. Noccioli, aceri, querce americane,pini e tantissime altre specie di alberi e arbusti. E’ il parco arboreto concepito come connessione tra varietà locali e vivaistiche provenienti da tutto il mondo e con una gestione sostenibile delle acque. Dal lato opposto incontriamo, chiuso dietro un cancello e un alto muro, un grande albergo dall’aspetto lussuoso. Sulla facciata, visibile da lontano, campeggia la scritta Savoia Hotel Regency.



Ci vogliono quindici minuti per girare intorno e tornare al punto di partenza e per accorciare la distanza imbocchiamo una piccola strada pedonale che taglia il parcheggio sul retro dell’albergo e ci addentriamo in un altro parco pubblico intitolato all’articolo uno della costituzione italiana. Scopriamo da Lino che tutto il parco è curato da volontari che si aggiungono alla normale gestione del verde comunale segnalando eventuali sversamenti di rifiuti. Sono occhi e orecchie al servizio di tutti, spesso basta un giro di chiamate per individuare il problema e andare a risolverlo, mantenendo così il verde collettivo pulito e godibile da tutti.
Siamo al termine della nostra giornata e ci prepariamo a salutare il nostro cicerone e a ringraziarlo per averci dedicato il suo prezioso tempo. Al momento del congedo Lino ci sorprende con un invito inaspettato. Siamo davanti alla torre dove si trova il suo appartamento e ci invita a salire fino alla terrazza per godere del panorama unico che si apre su tutti i lati. Saliamo in ascensore per 18 piani, e cerco di vincere il mio timore, mi trovo davvero ad un’altezza notevole e non amo questa posizione per molti privilegiata.

La terrazza è una semicirconferenza coperta, dall’interno mi ricorda molto la forma di un faro, con le vetrate circolari che permettono una vista a 360 gradi. Dalla torre riusciamo a vedere tutta la geografia del quartiere e il disegno che nel tempo si è modificato radicalmente che ci era stato raccontato da Antonio si materializza davanti a noi con un’evidenza sorprendente.



Mi rendo conto dell’estensione del Pilastro e della vicinanza del virgolone con la parte di vocazione commerciale alle sue spalle. Dalla torre diventa chiara anche la relativa vicinanza con il centro di Bologna, raggiungibile anche in bicicletta durante le belle giornate.
Ci fermiamo a riflettere sulle possibilità e sulle criticità dello sviluppo avvenuto durante gli ultimi anni intorno all’abitato e utilizzo questo tempo per fare un punto sulla giornata e riassumere le tante informazioni e gli stimoli che il quartiere e le persone che ho incontrato mi hanno regalato. Al momento dei saluti e della promessa di tornare con un gruppo fotografico Lino ci fa un ultimo dono. Ci parla di un progetto nato nel palazzo accanto; Teletorre 19, la prima tv condominiale italiana, nata nel 2001 collegando alla centralina dell’antenna del palazzo l’uscita del videoregistratore dell’ingegnere Gabriele Grandi che vi abitava. Ad oggi la TV ha un palinsesto ricco e vario ed è totalmente autogestita.

E’ davvero ora di salutare Lino e davanti ai 72 campanelli che compongono il citofono all’ingresso ci concediamo un ultimo momento di scambio. Sono trascorse solo poche ore dalla nostra conoscenza ma il congedo è molto diverso dal momento in cui ci siamo incontrati la mattina sotto l’ombrello alla fermata del bus. Il suo racconto, l’incontro con Antonio e con le giovani responsabili della Fattoria, il nostro vagare e la lettura della straordinaria toponomastica presente in ogni angolo mi ha permesso di comprendere lo spazio temporale che unisce luoghi fisici che sembrano distanti e di apprezzare ogni angolo del Pilastro andando al di là della mia personale osservazione.
Abbiamo visitato il Pilastro in un giorno festivo, sicuramente la possibilità di comprendere quanto complessa sia questa realtà deve passare da una frequenza feriale del luogo e da un’osservazione della quotidianità dei suoi abitanti. Raccomando allora a me stessa di tornare più volte a visitare il Pilastro, portando in dono a Lino e Antonio il mio racconto completato da alcuni scatti di Simone. Spero possa far capire loro con quanta attenzione ho ascoltato le loro parole e quanto ritengo importante il loro raccontare senza pretese.
Stefania Rinaldi