Vita reale in scena
Di Sonia Lucia Malfatti
Oggi però non è più sulla scena che dobbiamo cercare il vero, ma per strada. A. Artaud
Sabato 9 aprile si è tenuto l’ultimo appuntamento del ciclo di incontri 10×10. Stefania Rinaldi, presidente di CUT, ha commentato così l’episodio conclusivo del progetto:
“Siamo arrivati alla fine di questo percorso che ha visto protagoniste sei discipline artistiche differenti. Un percorso stimolante: essere contornati da tutte queste vivaci e giovani menti mi ha permesso di cambiare la prospettiva su alcuni argomenti e di rimettermi in gioco, e questo è fondamentale.”
Questa volta gli esperti sono stati Enrico Baraldi e Nicola Borghesi della compagnia Kepler-452, che si occupa di performance e di teatro. Kepler-452 nasce a Bologna nel 2015 dall’incontro fra Enrico Baraldi, Nicola Borghesi e Paola Aiello. Due sono le linee guida che muovono il lavoro del gruppo: da un lato, la ricerca del coinvolgimento di un pubblico preciso, quello che non va a teatro; dall’altro, la necessità di portare sulla scena la vita e le storie della gente comune. È in questo modo che i Kepler-452 cercano di ridare vitalità a una forma d’arte che definiscono “abbandonata in un angolo dell’immaginario comune”. Afferma Enrico:
“Abbiamo cercato la possibilità nella marginalità. Non esisteva un pubblico di riferimento; o meglio, esisteva, ma è il grande pubblico dei grandi teatri. Abbiamo voluto aggrapparci disperatamente alla realtà e tentare di prendere per i capelli il “paziente” teatro. Volevamo uscire dall’angoscia del nero teatro, dello stare chiusi dentro un teatro. Ci siamo rivolti al fuori, alla realtà. Cosa c’è fuori?”
Da questa domanda inizia la ricerca dei Kepler-452. Un intento quasi documentaristico, la necessità di narrare storie vere, di aprire le porte polverose del teatro al mondo e, soprattutto, alle persone che in quel mondo vivono. Una volta individuata una tematica, sociale o politica, i Kepler-452 cercano il dispositivo artistico più idoneo per narrare quella storia, ovvero il modo per trasformarla in teatro sublimandola nell’esperienza scenica. Molto spesso accade che per raccontare tali storie vengano scelte persone che non sono attori professionisti. Un teatro partecipato, in cui chi sta sulla scena non è esperto di recitazione ma expert of everyday, ovvero esperto della propria vita privata, della propria famiglia, del proprio lavoro.
Nei lavori di Kepler-452 l’aspetto finzionale più tipico del teatro dove l’attore interpreta un personaggio altro è superato e negato. In scena ogni attore interpreta sé stesso. Se ci sono aspetti finzionali questi sono sempre preventivamente dichiarati; nessun patto di sospensione dell’incredulità, solo vita vera. È teatro? È performance? I Kepler-452 non intendono irrigidirsi sotto una di queste due categorie, preferendo inserire il proprio lavoro in uno spazio liminale fra le due discipline. Per meglio dirlo con le parole di Nicola Borghesi:
“Non c’è l’elemento finzionale, io sono Nicola e ti dico una cosa. C’è questo patto, all’inizio: io sono io e tu sei tu, non facciamo teatro nel senso finzionale, non creiamo l’illusione di realtà, anche se sarebbe un bel gioco. Ma oggi questo non funziona: facendo teatro oggi è molto difficile incontrare un pubblico, se non elitario, appartenente a una data classe politica e sociale. L’idea del coinvolgimento in scena di persone della vita di tutti i giorni è anche un esperimento per vedere se un domani troverai queste persone in platea.”
I Kepler-452 affrontano molteplici tematiche urgenti, esplorando ambienti poco frequentati, realtà difficili ed emarginate. Esemplare della loro ricerca e del loro approccio è l’opera Perdere le cose. Essa è nata a seguito di un periodo in cui Enrico e Nicola hanno frequentato alcuni dormitori in mezzo ai senzatetto. Si tratta di luoghi dove le persone hanno perso molte cose: un lavoro, una famiglia, un’intera vita. I Kepler-452 hanno incontrato diverse persone, vivendo fra loro e intervistandole, in un processo complesso e delicato che ha dato vita a un’opera teatrale. Commenta Nicola:
“Ad un certo punto ci è apparsa un’identità molto forte, quella di F, Frederich, un ragazzo nigeriano che ha vissuto per quarant’anni in Italia, poi ha perso tutto. Soffriva anche di patologie mentali: un senzatetto, nigeriano, psichiatrico. Un personaggio forte, dunque, sotto molteplici aspetti. Lo invitiamo in teatro per coinvolgerlo: non ha neppure i documenti, non possiamo fargli un contratto. Questo significa che sopra un palcoscenico certe persone non ci possono salire per raccontare una storia, eppure abbiamo bisogno di queste storie e di queste persone. Così abbiamo costruito un dispositivo scenico che si basa sull’assenza del protagonista: il tutto è impostato sul concetto di assenza e sull’inventare dei dispositivi artistici per raccontare l’incontro con una persona che non c’è, noi che arriviamo in un posto e incontriamo una persona: identità così diverse che si incontrano.
Come consuetudine nel formato degli incontri 10×10, dopo una prima fase teorica, siamo stati coinvolti in un momento laboratoriale, nel quale abbiamo svolto alcuni esercizi teatrali volti a rafforzare la consapevolezza di noi stessi in relazione agli altri: camminare tutti insieme accordando la velocità del passo, stringersi la mano e darsi un saluto guardandosi senza abbassare lo sguardo, osservare per diversi minuti la propria immagine riflessa negli occhi di una persona di fronte. Poi, siamo usciti fuori, in strada, per cercare di cogliere gli stereotipi presenti nella vita di tutti i giorni, in un sabato pomeriggio nel centro di Prato. Tornati in classe, abbiamo cercato dei dispositivi narrativi per offrire una rappresentazione teatrale di ciò che avevamo visto. Ogni gruppo ha presentato una restituzione scenica sul tema stereotipo, interpretandolo ciascuno in modo differente: le vuote chiacchiere al bar, in cui si parla senza ascoltarsi davvero e senza interessarsi dell’altro; lo stare sulla propria auto dimenticandosi del mondo fuori e poi tornare a coglierlo mentre si è fermi ad un semaforo; una vetrina i cui manichini propongono un’idea di famiglia stereotipata. Piccole cose, che sono ogni giorno sotto i nostri occhi, e a cui siamo talmente abituati da non prestarci attenzione. È solo osservandole con sguardo critico che possiamo comprenderle fino in fondo e provare a cambiare ciò che non funziona.
Si è concluso così l’ultimo appuntamento della serie 10×10. Sei giornate in cui giovani e giovanissimi hanno riflettuto su tematiche importanti ed urgenti affrontandole dal punto di vista di sei diverse discipline artistiche e offrendo il loro importante punto di vista su aspetti importanti della contemporaneità. Reciprocità, dialogo, partecipazione, processualità, accoglienza, creatività, ascolto sono solo alcune delle parole chiave che hanno fatto da filo conduttore in questi incontri. Nel corso dei quali, insieme, abbiamo cercato di costruire nuovi frammenti delle nostre identità e della nostra consapevolezza di cittadini e cittadine, tentando di portare l’arte e gli artisti dove dovrebbero stare: in mezzo ai giovani, nel mondo reale, accanto alle persone.
Ecco alcuni scatti dell’incontro realizzati da Simone Ridi:












DI SEGUITO ECCO PER VOI IL RACCONTO DEI PROTAGONISTI CON IL PODCAST DI MASC…
Le attività di 10×10 Dialoghi sull’Arte sono all’interno del progetto Officina delle voci, con capofila il Comune di Prato, cofinanziato dal Dipartimento per le Politiche Giovanili e il Servizio Civile Universale a valere sul “Fondo Politiche giovanili” che mira a creare uno spazio dove trasformare le idee dei giovani in nuove imprese, in crescita e sviluppo professionale, sociale e culturale, che si configuri come un “incubatore” dedicato alla sperimentazione di interventi innovativi per valorizzare la memoria della città operaia e rivitalizzare l’offerta culturale della città.
