Interviste Artisti TU35 – Massa Carrara – realizzate da Francesca Vason

Intervista a Andrea Carpita

AC: La mappa della vecchia Kowloon, chiamata Kowloon Walled City. È una città illegale all’interno di Hong Kong, vera e propria città anarchica, diventata da un lato un singolare esperimento di welfare collettivo, ma anche un centro del traffico di droga, denaro, prostituzione.

La città venne demolita nei primi anni ‘90. Il mio lavoro, almeno quello che oggi sto portando avanti, nasce da questa mappa. La storia di questa città l’ho conosciuta per caso, ma il suo fascino è stato molto forte. Il mio intento in un certo modo, è quello di rappresentare quella mappa, ciò che essa inevitabilmente simboleggia e sopratutto ciò che tutt’oggi essa è: una COSA che non esiste più.

FV: Innanzitutto una curiosità: hai posto l’accento sulla parola COSA, mettendola in maiuscolo. È un caso o è voluto?

AC: Ho scelto la parola COSA, perché il mio interesse è rivolto quasi totalmente a ciò che voglio estrapolare, un esercizio sviluppato in questo caso su una città attualmente inesistente, ma potrebbe essere qualsiasi altra cosa, appunto.

Perché ho scelto Kowloon o Hiroshima? Avrei potuto fare Dresda, Homs, Nagasaki, Aleppo e probabilmente le farò, ogni mappa mi permette di produrre un disegno dal carattere differente, ma non è questo che mi attrae di più. Poter generare una realtà da ciò che è stato cancellato, è questo quello che mi affascina, ecco perché non la chiamo più mappa, ma COSA.

FV: Sul tuo portfolio si legge: “un paesaggio può diventare una linea tono su tono al centro di una tela, quasi fosse una questione di punti di vista”.
La relatività nel percepire un oggetto/soggetto consente di far crescere in modo esponenziale le possibilità del tuo agire. Che limiti ti poni tu per arginare le infinite possibilità d’azione che hai?

AC: I limiti effettivi, in questo caso, sono dati dal disegno e dalle misure delle mappe utilizzate, parlando del mio lavoro in generale, i limiti non sono molti, se non di carattere tecnico, quindi i limiti fisici dei materiali utilizzati.

Questa relatività di cui parli è il centro del mio lavoro, il domandarsi che cosa sia realmente un paesaggio, un ritratto, un disegno. Effettivamente il mio agire può avere possibilità esponenziali, forse anche questo è un limite enorme, decidere che cosa fare e perché.

FV: La natura processuale di opere come Nero sta nella stratificazione di livelli pittorici che ti permettono di ottenere il giusto grado di “oscurità” e da cui emergono le imperfezioni date dal depositarsi del colore. Colore che spesso mescoli alla cenere, materiale con numerosi significati. Puoi spiegare meglio questo procedimento, anche per capire che controllo hai sul “disegno” finale che ne emerge, e la scelta di usare la cenere?

AC: La cenere possiede differenti gradazioni di grigio, può avvicinarsi al bianco o assumere sfumature rosa, verdi, marroni, questo dipende da che cosa si brucia, dalle temperature e dalle tempistiche della combustione. Ho iniziato ad utilizzarla semplicemente perché ero spinto a farlo, soltanto dopo mi sono accorto che c’era molta affinità tra il materiale utilizzato e il soggetto/oggetto rappresentato. Preparo delle miscele di cenere, olio di lino e colore ad olio, applico delle velature sulla tela, generalmente avvengono molti passaggi che vanno a formare una superficie molto particolare, direi morbida, dalla quale escono fuori lievi irregolarità dei residui della cenere, ma non ho alcun tipo di problema nel controllo del “disegno”, che in effetti è proprio un disegno.

FV: Se fino a qualche tempo fa mettevi al centro della tua attenzione i limiti (e anche le potenzialità, per me questi due termini sono interdipendenti) della pittura e della sua percezione, più recentemente ti sei dedicato all’auto-rappresentazione, provando a esplorare i limiti umani. Bent Body è infatti costituito da 9 blocchi di misure variabili calcolate sulla misurazione dei tuoi arti. Come pensi proseguirà questa ricerca?

AC: In questo momento sono molto impegnato sulla pittura, se per pittura si intende utilizzare dei pennelli. Sto lavorando molto bene (finalmente) dopo un lungo periodo di scarsa produzione.

Ho diverse idee su questo tipo di lavoro, trasformare un corpo, che sia mio o di un’altra persona, in una serie di blocchi o forme destinati ad un’ulteriore trasformazione e degradazione, credo che presto tornerò a lavorarci.

Non ho mai concepito questo lavoro soltanto come scultura, se li appendessi a muro, diventerebbero delle superfici pittoriche composte da cenere e cemento, anche questo mi interessa, che cosa è scultura?

FV: Vivi e lavori a Carrara. è un territorio che conosci bene. Che rapporto hai con questa città e la storia, non sempre facile, che la unisce a Massa?

AC: Credo che il territorio in cui vivo sia l’ultima cosa a influenzare il mio lavoro, non provo particolare interesse per ciò che rende questa città così celebre, semplicemente perché fino ad oggi, non ho trovato modo di inserire il marmo nella mia ricerca. A Carrara però, ho trovato le persone che mi hanno insegnato quasi tutto quello che so e tutto sommato ci vivo e lavoro bene.

di Francesca Vason

Intervista a Franco Rossi (Semi Cattivi)

FR: In questo determinato tempo in cui sto sperimentando come attivare sempre più l’immaginazione dello spettatore, mi rendo conto di aver assimilato dalla musica il come raccontare una storia in un tempo ristretto, dilatando il tempo senza alterarne il suo scorrere, e di aver invece assimilato dalla letteratura il fatto che una storia funziona solo quando riesce a trasportare chi la ascolta in un mondo “a parte”, come se gli si fornisse una finestra che può aprire e chiudere quando vuole (proprio come quando si legge un libro e lo si chiude per un attimo, o per un giorno o per un mese) ecco perché sto lavorando su trilogie o episodi.

Credo che la narrazione orale (dall’Iliade, all’Odissea, ecc.) che unisce questi due aspetti sia il mio riferimento. In questa prospettiva citerò un libro: Moby Dick. Tutti lo abbiamo letto, come racconto per ragazzi, un racconto a tratti fantastico eppure reale, una storia di coraggio, di amicizia, di eroismo, ma Moby Dick è anche sapienza della scrittura che si fa suono ed è soprattutto una storia universale, storia di simboli, di esseri umani in lotta con loro stessi alla ricerca di un senso delle cose, è storia di legami che uniscono e possono perderci, ed è studio, osservazione attenta dell’autore, su ogni tipo d’uomo a bordo di quel naviglio, ed è tragedia. Moby Dick soddisfa sotto ogni aspetto le richieste del lettore: avventura, misticismo, religione, simbolismo, il tutto pervaso da un senso di ineluttabile che tanto ci costringe a fare attenzione ai dettagli per non perderci nulla di quello che sappiamo accadrà (tutti ma proprio tutti sanno che Achab morirà con la balena, eppure…). Dopo questa divagazione mi sento di dirti che Moby Dick è sicuramente stato un riferimento, mi ha insegnato come sia d’obbligo tenere in equilibrio i diversi mondi che si dischiudono non appena ha inizio una nuova opera, e mi ha insegnato a cercare di decifrarli per ricomporli poi in un ordine particolare e mi ha insegnato come stabilire un rapporto con il mio immaginario, la mia urgenza, la mia emozione evitando di precipitare nell’autoreferenzialità e al tempo stesso mi ha insegnato a tenere sempre presente che una narrazione non può mai essere una semplice cronaca dei fatti.

Ti sto parlando e mi viene in mente che naturalmente l’Iliade e l’Odissea non sono solo dei riferimenti ma architravi su cui regge gran parte del nostro pensiero contemporaneo.

FV: Semi Cattivi è una compagnia teatrale che nasce nel 2005 e che vede la collaborazione di diversi professionisti tra cui Akio Takemoto, Giulio Saverio Rossi, Marco Barani, Stefania Gatti, Fabrizio Bertone, Alessandro Giovanardi, Rocco Bonci…

Avete scelto di operare a Massa Carrara, un territorio complesso, frammentato. Perché avete scelto come “base” una città di provincia e come essa influenza i vostri progetti?

FR: Inizialmente lavorare nei siti industriali dismessi (che da noi si trovano a iosa) ci dava quel senso di post industriale, di post di qualsiasi cosa, che ci rendeva automaticamente dei reduci, persone che gli tocca vivere nel dopo, quando le ideologie sono già finite, i muri caduti, le rivolte scoppiate, gli incendi domati, c’era solo una lontana eco di quei passati momenti e quella andava catturata e doveva essere nostra, e noi l’andavamo a pescare appunto nei luoghi dove la storia del nostro territorio si era consumata, fabbriche, cave, in una retrovia senza più speranze di riscossa, che via, via, cedeva metri al terziario, lo vedevi, ogni giorno di più; ciò che era stato il sogno industriale, e anche manifatturiero nel nostro territorio, rappresentato da loft piccoli o enormi, trasformati in magazzini o addirittura demoliti; da questo punto di vista vivere in un territorio come il nostro, proprio sul ciglio della provincia, dove queste trasformazioni altrimenti puramente teoriche le toccavi con mano, non era male; e poi questo continuo installare e frequentare siti del genere, questo continuo cercare fantasmi, ci aveva così sviluppato l’udito che ormai non ci serviva più molto tempo a sentire la storia che il luogo raccontava, ma questo significava ormai soprattutto una cosa: era arrivato il momento per noi di raccogliere quei rumori e portarli altrove. E siamo alla storia di adesso, francamente più stancante, sul fronte teatro. Lavorare in questo territorio significa non ottenere nulla e stancarsi, c’è pochissima attenzione al teatro, figurarsi al teatro di ricerca, un pullulare di responsabili alla cultura che ignorano qualsiasi esperienza di residenza teatrale o multidisciplinare (e ce ne sono parecchie già solo qua intorno), per questa ragione la storia adesso per noi ha assunto i contorni di una sfida. Ovviamente, come sempre nella vita, da ogni situazione nuova nasce sempre qualcosa d’interessante e infatti abbiamo iniziato a sviluppare lavori e narrazioni con gli abitanti di un quartiere, dove poi mettiamo in scena il racconto video o teatrale nato dai loro racconti, in una restituzione divertente e coinvolgente. Nel frattempo non ci arrendiamo e continuiamo a creare presupposti per produrre teatro di qualità, mentre maciniamo lavori e alleviamo parole.

FV: Per la mostra di Prato si è scelto di proporre, in versione audio, il monologo dal titolo I funerali di Togliatti. Recentemente passato anche in radio la pièce racconta la storia di Palmiro e del suo dolore che passa per una gioventù dissipata, per i grandi ideali a cui sono corrisposti tanti sogni non realizzati. Parla del dolore per un territorio deterritorializzato, che ha perso molte certezze, la forza della sua comunità, che è stato in qualche modo svuotato. Tutto questo racchiuso nel dolore di una mano. Puoi parlarne?

FR: Come ti dicevo prima a proposito dei grandi narratori nord americani (Melville, ma anche Steinbeck, Caldwell, ma anche e soprattutto nell’Iliade, Odissea…) per me raccontare significa innanzi tutto, narrazione orale, cioè rapsodia, e da qui non si può prescindere; bisogna innanzi tutto conquistare l’ascoltatore con la pura e semplice narrazione, dinamica, ricca di fatti o di caratteri, tenerlo lì,  per poi arrivare, per quanto possibile, alla poesia, al significato più profondo, fatto di simboli; questi due livelli a volte s’intrecciano altre volte no. La mano è sicuramente l’elemento con cui sperimentiamo il mondo, tocchiamo e ci tocchiamo, ci regaliamo sensazioni piacevoli e dolorose, cresciamo, e poi, nel caso de I funerali di Togliatti, rappresenta proprio la fine di un’epoca, ben visibile nella nostra zona, la scomparsa (quasi totale) del manifatturiero, dell’artigianato, insomma la fine del contatto con la materia e con le persone; “dare una mano” significa dare aiuto, quindi rappresenta anche un po’ la scomparsa (grazie al benessere (?) toglierei) del bisogno dell’aiuto reciproco, insomma di quella solidarietà istintiva che solo il vicinato può dare, con solidarietà non intendo la solidarietà collettiva sui grandi temi, piuttosto diffusa e che a volte mi pare puramente preconfezionata e poco sentita.

FV: Alla base del vostro lavoro c’è la volontà di coinvolgere il pubblico in una maggiore partecipazione nella scena. Il pubblico è composto da esseri pensanti, spettatori con un’emotività e un senso critico che nei vostri progetti hanno l’opportunità di essere presi in considerazione e valorizzati. Puoi raccontare meglio questa vostra peculiarità e come, di volta in volta, essa viene messa in atto?

FR: La risposta in parte è già in quello che ti dicevo prima, posso solo aggiungere che tempo addietro ottenevamo il coinvolgimento del pubblico nello spazio scenico, rendendo ognuno partecipe dei fenomeni che attraversavano quello spazio, veicolando l’attenzione verso una possibile rilettura di quel luogo, certo era molto suggestivo, e il risultato incredibile, (credo che chiunque faccia teatro creda un poco ai fantasmi, tale e quale ad una medium, altrimenti non riuscirebbe a farli vedere ad altri) insomma semplicemente sceglievamo un messaggio all’interno di un luogo e spingevamo su quello, fosse semplicemente amplificare il rumore del vento e delle porte e finestre che sbattevano magari da anni in quel luogo, o lavorare con le luci sull’infinito pulviscolo che si muove ad ogni folata di vento in luoghi grandi e abbandonati, e questo bastava come sottofondo per preparare gli spettatori al racconto, con quella sorta di sospensione dell’incredulità, perché ognuno di noi in fondo un poco crede agli spiriti, o ai demoni (vedi appunto Iliade). Adesso direi che il mio, nostro  lavoro mira alle stesse conclusioni: alla ricerca di fantasmi, ma percorrendo una strada diversa, quasi all’incontrario, nessuna sollecitazione dei sensi (o se c’è è minima) luogo neutro, solo un attore e il pubblico, in silenzio,; all’attore e alla storia il compito di estrarre piano, piano, ogni singolo ascoltatore e farlo sentire partecipe, solo, con la sua storia, eppure in mezzo ad altri.

di Francesca Vason

Intervista a Giuseppe Renda

GR: Ho scelto un brano tratto da “Uno, nessuno e centomila” di Pirandello e un’immagine tratta da “Disegnare con la parte destra del cervello”, un libro di Edwards Betty, che riassumono bene un ambito che mi interessa molto, quello della percezione. La percezione visiva e quindi i due ritratti della stessa persona fatti nello stesso momento, con gli stessi materiali, ma eseguite da persone diverse. Sicuramente entrambe assomigliano al modello di partenza, l’una non è meno vera dell’altra. Eppure, se confrontate, sono profondamente diverse, tanto da sembrare due persone differenti da quelle ritratte.

Il fenomeno non si esaurisce nella sola percezione visiva delle cose, ma investe un ambito più ampio, che ha a che fare con la psicologia e la percezione del mondo. Il modo di leggere se stesso e gli altri in base all’idea che lui ha delle cose e che gli altri hanno di lui e che tuttavia non potrà mai possedere. Ed ecco che in quest’ottica la realtà si amplifica, tutto diventa relativo, non ci sono più assoluti, e non può di conseguenza esistere un vero più “vero degli altri”.

Ognuno dà una lettura delle persone, degli eventi, dei luoghi e delle situazioni sempre relativa alla propria esperienza, a quello che ha visto o sentito (e perché no sognato, se attribuiamo al sogno una sua realtà in quanto esperienza) in precedenza. La psicologia sociale e l’applicazione della Gestalt anche in questo campo ne sono una prova.

Trovo questo molto bello, e credo che sia da tenere sempre presente questa diversità di “sottostrati” quando ci rapportiamo alle immagini quanto alle persone. Penso che sia un valore positivo e rispettarlo non può far altro che arricchirci.

FV: A seconda dello sguardo di chi dipinge, a seconda degli strumenti che egli usa – un pennello, un pennino a inchiostro, una macchina fotografica – il risultato cambia. Questo è evidente. Quando menzioni la Gestalt e le teorie della percezione della forma non riesco a non pensare al fatto che i fenomeni visivi applicati quindi all’assunzione di un immagine sono determinati da regole piuttosto rigide e che i comportamenti sociali sono il risultato delle sensazioni che proviamo, le percezioni, gli obiettivi, le intenzioni, le convinzioni, le motivazioni e le relative credenze. Come fai rientrare questi aspetti in questa tua indagine sulla percezione?

GR: Cerco di portar fuori ciò che mi è sembrato di scorgere tra le righe in un’immagine, così come cercherei di portare verso l’esterno le cose che mi sembra di vedere in nuce nel rapporto con una persona o in una determinata situazione. A volte, nella realizzazione delle immagini, questo processo sembra essere logico, mi accorgo solo dopo di dare molto peso a quella che è la mia visione delle cose.
Ci sono tuttavia delle regole a cui nessuno può sfuggire: ad esempio la nostra tendenza a vedere elementi reali, in una configurazione astratta. I pittori informali dovettero affrontare questo problema, le persone continuavano a riconoscere figure, animali e paesaggi nei loro quadri. Fu allora che l’elemento del colore, inteso tradizionalmente, iniziò a venir meno, proprio per attutire tali percezioni.
Nel mio lavoro il colore ha molto importanza, l’uso del colore, da solo può cambiare il significato di un’immagine, dare una sensazione piuttosto che un’altra, indirizzare.

FV: Sei attratto dagli schemi visivi, da una serialità che consente di restare legato a un soggetto e ogni volta realizzarlo in modo differente. Questo è evidente in diverse serie il cui soggetto ritorna insistentemente seppur offrendo soluzioni sempre diverse, quasi a voler rendere davvero possibile la possibilità di dipingere un solo quadro per tutta la vita.

Normalmente come operi quando dipingi? Tieni sempre davanti lo stesso modello o lavori a domino, partendo da un modello, poi tieni davanti l’opera appena realizzata e così via…)

GR: I modelli sono sempre diversi , cerco però di selezionare quei soggetti che abbiano una relazione tra di loro. Le opere nascono una dopo l’altra, come dei prolungamenti della stessa. Procedendo in questo modo riesco a creare delle “serie” o comunque delle opere visivamente simili.
Sono piccole cose tenute insieme da qualcosa di simile, non portano mai ad un’opera definitiva. E’ un processo che non può protrarsi a lungo, dopo poco l’immagine inizia a perdere la propria forza e a trasformarsi nella brutta copia di se stessa. Sono frammenti di un discorso che non riesce ad andare avanti, per cui deve arrestarsi a un certo punto, allora per proseguire cambio l’immagine di partenza oppure lo strumento con cui realizzarla (disegno, pittura, fotografia), ma non mi fermo.

FV: Nel tuo modo di avvicinarti alla pittura si scorge una certa autoreferenzialità…

GR: Si, è corretto, anzi mi piace molto questo termine, parla di qualcosa che trova in sè tutte le proprie ragioni d’essere, che è autosufficente. Trovo affascinante che la pittura possa riferirsi a se stessa, e da questo ambito trarre ragioni e problemi.
Penso che il chiudersi della pittura all’interno del proprio ambito sia efficace tanto quanto il suo ibribarsi con tutti gli altri linguaggi nell’esprimere la situazione contemporanea.

FV: La pittura, inoltre, è da sempre utilizzata sia con l’intento di descrivere una realtà, sia di modificarla, trasformarla, esaltare o nascondere delle verità. Realtà e artificio. Verità e illusione. Sono binomi che ormai la contemporaneità ha scavalcato. Ciò è dimostrato dal fatto che copiare dal vero o copiare da una foto… non è meno efficace!

Come si trasferisce poi questo aspetto sul tuo lavoro?

GR: Come hai detto tu, penso che sia una questione che esiste da sempre, già prima dell’invenzione della fotografia c’erano pittori e pittrici che dipingevano in maniera “fotografica” aderendo di più alla realtà e altri che pur rimanendo nell’ambito di una rappresentazione realistica delle cose tendevano a travisarla inseguendo dei valori personali. Penso che siano attitudini, modi di vedere e registrare le cose, indipendentemente dall’avere di fronte un oggetto o la sua riproduzione.
Io ho sempre preferito lavorare con la fotografia , copiare dal vero qualcosa mi distrae, senza volerlo inizio un processo di mimesi tra ciò che ho davanti e l’opera. Ciò mi allontana dal risultato che vorrei ottenere, paradossalmente sento come limitante lavorare dal vero.
Preferisco utilizzare la fotografia come spunto, solitamente virandola in bianco e nero , per evitare quell’imitazione involontaria di cui parlavo prima. La fotografia inoltre mi dà la possibilità di conoscere cose altrimenti impossibili da studiare dal vero, la vista aerea di una città per esempio , o altre cose fisicamente distanti dalla mia visione abituale, che arricchiscono il mio immaginario.

FV: Massa Carrara. Avverti un legame con questo territorio che poi si riflette sul tuo lavoro?

GR: Carrara, è una città con una grande tradizione del “fare” arte, lo si avverte tra le aule dell’Accademia di Belle Arti che frequento cosi come nei laboratori artistici della città, indipendentemente che da questi escano opere di arte contemporanea o altri manufatti. Si sente la presenza di un fare pratico, di un profondo rispetto per il mestiere. Ho sempre pensato che saper fare un mestiere e saper far le cose bene non siano dei limiti, ma degli strumenti per crescere; e in questo Carrara mi asseconda.

di Francesca Vason

Intervista a James Harris

JH: Non mi è semplice scegliere un qualcosa che sia esemplificativo delle mie fonti di ispirazione. Ciò che mi circonda, il dettaglio della quotidianità, cose all’apparenza banali sono in grado di catturare la mia attenzione e innescare un processo che da mentale a volte si traduce in materiale.

FV: … e così come una veneziana diventa il supporto ideale per la proiezione di una veduta esterna, anche un pezzo di marmo, attraverso uno speciale trattamento, può essere per assurdo trasformato in “marmo marmorizzato”.

JH: Sembra che le tue opere siano spesso il risultato di un ironico gioco di associazione, camouflage, misunderstanding, successivo svelamento che coinvolge oggetti, materiali, i loro nomi, le loro proprietà, i possibili significati che essi portano con sé e che a te accendono una lampadina. È così?

In un certo senso, sì. Mi affascina l’idea che in un numero infinito di mondi paralleli ci siano altrettante versioni del nostro. Infatti è un’idea che non riesco a comprendere a pieno. Mi ritrovo spesso a indagare la natura di un oggetto, la sua apparenza e la nostra percezione di esso. Cerco di usare la lampadina che hai menzionato per fare luce su un soggetto o una questione che porta a una nuova lettura o che chiude un cerchio. Una sorta di via d’uscita plausibile dalla realtà; considerando che uno schermo lo è già per molti di noi, la proiezione di ciò che c’è all’esterno su una veneziana chiusa permette di guardarvi attraverso, unendo due realtà distinte, quindi annullando una barriera. Al marmo, pregiato per la sua purezza, ho applicato un effetto marmorizzato con la tecnica tradizionale fiorentina che impiega smalti posti su una superficie di acqua prima di trasferirli sul supporto, in genere carta. Ne risulta un marmo che si finge un altro tipo di marmo grazie a una pellicola artificiale di colore.

FV: Da sempre la tua attenzione non è solo legata al materiale, ma anche allo spazio in cui esso s’inserisce. Penso a Last drops, 2011, dove il marmo nero del Belgio è levigato a tal punto da presentarsi come una massa in apparenza liquida (caratteristica che di certo non appartiene al marmo) ma diventare anche una superficie riflettente del contesto circostante.

JH: Intendendo per contesto l’ambiente fisico in cui sono inserite le opere, è ritenuto indispensabile che sia neutro, per evitare che interferisca con esse. Eppure non è sempre stato così e forse questa esigenza la stiamo superando. Il bisogno di una lettura trasversale nella mia ricerca è un modo di flettere le abitudini della percezione, quindi di permettere che anche l’ambiente sia messo in discussione.

FV: In mostra sarà esposta anche la proiezione di una sedia in tutti i suoi lati. Un lavoro dal titolo Beuys don’t cry realizzato a terra in cera d’api…

JH: E’ una sedia rappresentata in un’altra dimensione, riguarda la nostra immanenza rispetto a quella di un’opera, in questo caso invece avviene la smaterializzazione dell’oggetto e la celebrazione dell’autore. E’ una sorta ‘decostruzione rispettosa’ dell’opera di Beuys, la sedia è aperta e bidimensionale, ne è testimone la cera d’api liquefatta che ne traccia i contorni.

Per Ipotenusa | una mostra irrealizzabile hai pensato a un intervento site specific dal titolo Mimesi #2. Nello specifico hai oscurato, attraverso un particolare impasto ottenuto dalla mescolanza di polvere di marmo e acqua, le vetrate dello spazio espositivo. Questa “barriera” non soltanto richiama l’idea d’intimità e privacy presente negli studi d’artista, ma porta in evidenza alcune frammentazioni percepibili nel territorio in cui agisci.

Tu che hai scelto di vivere e lavorare in una città come Massa Carrara, cercando sin dagli esordi di creare dei momenti di dialogo con sperimentazioni artistiche esterne (penso all’esperienza con Gum studio), come vivi il rapporto con il territorio?

La realtà che vivo, qualunque essa sia, mi influenza e si riflette nel mio lavoro. Ciò è dovuto al continuo confrontarmi con il posto e la gente, in questo caso di Carrara, una città dura e romantica, piena di contraddizioni in cui vivo sin da quando sono arrivato come studente, ma in cui non ho mai messo realmente le radici. L’Accademia e Gum Studio sono state realtà che mi hanno portato a guardare oltre l’industria del marmo intorno cui gira l’economia della città. La realtà dei laboratori a Carrara è molto forte e variegata, tra tradizione e innovazione, arte e artigianato, talvolta decadente, eppure è luogo di attività e produzione a ridosso dello spettacolo apocalittico delle cave.

FV: Ma nonostante questo il marmo l’hai fatto tuo e adoperato , in modo diverso rispetto alla tradizione.

JH: La ‘marmettola’ è marmo polverizzato dai macchinari durante la lavorazione, insieme all’acqua viene raccolta e filtrata perché molto inquinante. È una parte dello scarto, ciò che viene tolto al blocco da un robot per liberare una figura oppure il materiale che unisce una partita di lastre prima che siano separate in segheria. Ho voluto impiegare questa poltiglia bianca fatta di un materiale indicato per scultura come medium pittorico sulle vetrate. È uno strato di marmo che costituisce una barriera visiva.

di Francesca Vason

Intervista a Giulio Saverio Rossi

GSR: In realtà non ho alcun riferimento esterno. Ciò che leggo lo elaboro lentamente nel tempo e non ho mai, come dire, un parallelo letterario specifico con il mio lavoro.

Ti segnalo un’opera d’arte che ha una certa similitudine nel suo modo di relazionarsi alla storia con quelle che propongo a Prato e in cui ho visto il mio stesso approccio. Non ne è un pretesto, non è in alcun modo il motore, piuttosto una pietra di paragone possibile.

A Nuclear Masquerade di Simon Starling. L’opera è un tentativo da parte dell’artista inglese di leggere le pieghe buie della storia, cioè quelle contraddizioni che il caso, o il fato generano, e che si configurano come aperture sul senso della storia, sul suo in qualche modo prendersi gioco di noi. L’artista può far suo questo materiale storico solo se pone questi eventi all’interno di una nuova narrazione frutto di un libero approccio da parte dell’artista che dunque, da un lato presenta un fatto storico, ma dall’altro lo apre entro una dimensione poetica.

FV: Starling costruisce le sue mostre partendo dal contesto: spazi espositivi, città o memorie. Parte da un punto e crea le sue connessioni, sviluppa la sua indagine in diverse direzioni dando vita a dei collage frutto di associazioni più o meno immediate. Questo come si lega all’opera che stai realizzando proprio per la mostra?

GSR: L’opera Nuove dal Castello dell’Imperatoreconcepita espressamente per il progetto TU 35 ha avuto una lunga gestazione, quel tanto che basta per invertirne il principio da cui era partita. La prima idea consisteva nel basarsi su  documentazione archivistica per estrapolarne l’essenza e rileggerla in maniera soggettiva. Attuando un cortocircuito fra ciò che è oggettivo o avrebbe una tale pretesa e ciò che è soggettivo. La documentazione archivistica e la storia che essa racconta sono infatti assodate nella società contemporanea come oggettive, vere, e sotto questa posizione partecipano dell’intoccabilità che l’archivio garantisce loro. Oltre ciò c’è la visione soggettiva, relativistica e artistica. L’opera d’arte così intesa (come cortocircuito fra oggettivo e soggettivo) è la messa in dubbio dell’oggettività della storia, ossia l’idea che il palcoscenico del dramma umano non sia una griglia cartesiana ma possa essere fonte di letture molteplici per chi, come l’artista cercasse nuovi sensi possibili a partire da un materiale dato. Estremizzando ancora questa intenzione e cercando entro la storia di Prato e del luogo dell’esposizione ho deciso di azzerare l’idea di partenza per cercare qualcosa di più specifico, e che si relazionasse al luogo stesso della nostra mostra. Sono ripartito dalla rilettura di un fatto storico accaduto a Prato nel 1944 chiamatoL’eccidio del Castello dell’imperatore. Il castello di Federico II (rinominato dell’Imperatore durante il ventennio) fu il luogo dove alcuni partigiani eseguirono la condanna a morte per un gruppo di fascisti prelevati in città a seguito dell’uccisione da parte di truppe tedesche di alcuni civili. Il primo corpo di questo eccidio fu ritrovato nella piazza antistante al luogo dove ci troviamo, la piazza dei Macelli.

Ripartendo da qui, da un fatto storico che mette in scena un conflitto perenne e irrisolvibile della storia italiana, ho articolato una possibile narrazione composta da immagini (incisioni) e linguaggio. Revisione è in Italia un termine che designa una presa di posizione ideologica dei confronti della storia, ma revisione significa ri-vedersi, vedersi dal di fuori. Negarla significa non concepire la storia come una serie di azioni aperte che c’interrogano, incorrendo nel profondo rischio di non comprendere la storia stessa.

Da questa interrogazione nasce la mia decisione di richiamare un evento tragico e conflittuale non certo per risolverlo ma per sottolinearlo, è invero questo ciò che fa l’artista, egli apre un grande atlante che ha sempre di fronte a sé dove tutta la storia dell’umanità è presente e ne sottolinea un unico evento per porlo sotto una nuova luce, ed un solo evento alla volta. L’opera è costituita da cinque incisioni, di cui quattro di queste sono ottenute registrando il cemento della piazza dei Macelli sulla matrice di zinco tramite la tecnica della ceramolle, riportando così entro lo spazio espositivo ciò che è fuori e che rappresenta il legame con l’eccidio. Nel mezzo di queste quattro stampe una quinta lastra ci mostra un personaggio: è un cinese vestito da arbitro.

Un personaggio possibile come interprete di tutta la storia ma anche in qualche maniera come prodotto, come frutto della contemporaneità. Infatti è una persona proveniente dalla Cina, quindi esotico, alieno, ma al contempo veste la divisa di un gioco occidentale di cui si fa non solo promotore, ma garante delle regole, l’arbitro è, seguendone l’etimo, colui che viene ad assistere, ma essendo ontologicamente straniero egli non può di fatto pronunciarsi e la sua presenza diviene un simbolo del paradosso che la storia ci pone.

Tornando alla domanda Simon Starling è un artista che opera sulla storia e perciò si riallaccia alla tipologia di intervento che anch’io ho deciso di proporre, ma se Starling non ha una specifica limitazione mediale entro cui operare io cerco invece di portare questo atteggiamento narrativo entro regole ferree, entro possibilità che i medium tradizionali, in primis l’incisione, possono offrirmi e qui sta la radicalità della mia poetica, portare le prassi contemporanee (processi partecipativi, indagine sul territorio, ecc…) in un dialogo serrato con un saper fare strettamente manuale che non delego ad altre persone e che diventa il supporto teleologico di tutta la genesi dell’opera.

FV: Guardando la tua opera “Il ponte Ermeneutico” viene in mente la modalità narrativa dello Storytelling: la possibilità di raccontare, nel tuo caso attraverso una linea narrativa sviluppata per immagini, fatti accaduti, esperienze, sensazioni.
In che modo ti avvicini alla realizzazione di tale linea narrativa? Cosa ti colpisce dei fatti che scegli di “raccontare”.

GSR: Quello che mi colpisce delle cose che cerco di raccontare è in primis il fatto che mi accorgo di non conoscerle, di averle sentite raccontare talvolta da qualcuno ma che profondamente neppure questo qualcuno le conosce. É da questa ignoranza diffusa che si genera la necessità di indagare cose semplici, semplicissime, cose che possono essere conosciute da tutti ed indagate da tutti, ma che spesso non indaghiamo  dandole per scontate, del resto è ciò che Hegel dice quando ammonisce “il più noto proprio perché noto è sconosciuto”, o se vogliamo Quarto Potere d Orson Welles è la storia di una slitta vista da un certo punto di vista. Attualmente sto lavorando ad una serie di dipinti ad olio intitolati Delle Cose del Mondo e del Mondo delle Cose, la maggior parte di queste immagini presenta un semplice oggetto quotidiano: termosifone, bidone, presa della corrente, lavandino ecc… Eppure tutti questi oggetti si rivelano ognuno come appartenente ad una storia specifica che nessuno ha scritto, ognuno è parte e simbolo di un mondo che lo sovrasta. Solo l’elemento narrativo è ciò che pone l’arte oltre la propria tautologia aprendola ad un’ininterrotta domanda di senso che le cose ci rivolgono e a cui i fruitori si rivolgono attivamente. La mia opera è infatti narrativa proprio perché non è conclusa:  non è un’immagine che si da e nel suo darsi si compie ma un’immagine che nel darsi si offre come interrogazione, e la narrazione è ciò che il fruitore costruisce in risposta allo stimolo. Il fatto che mi colpisce e che tendiamo a svalutare è che la narrazione non è qualcosa che l’artista costruisce ma qualcosa che già esiste, il punto è saperla vedere o no.

Il ponte ermeneutico, concepito come libro d’artista per il progetto Dispositivi Inattuali a cura di Pietro Gaglianò e Julia Draganovic era proprio questo: presentare una struttura utopica una megachimera che si sviluppa nello spazio e nel tempo della quale pensavamo di essere osservatori esterni, e invece vi siamo già inevitabilmente presi dentro.

Massa Carrara. Cosa significa lavorare e produrre in questa città? Come saprai di sicuro meglio di me e come emerge dagli intenti di questa mostra, la provincia in questione è un territorio piuttosto frazionato, contraddittorio, ibrido, potrei dire anche un po’ violentato da questi cambiamenti, aspirazioni e sogni infranti. Come influisce sul tuo lavoro la permanenza a Massa o quanto invece, attraverso il tuo lavoro riesci a evadere da essa?

Non credo che l’arte sia mai un’evasione, né da una città né dal reale. Evasione è qualcosa che trascende la norma, il quotidiano, mentre per l’artista la sua arte è quanto di più normativo e quotidiano gli sia dato. E da cui non vorrà mai evadere. Anche se ammetto che la mia formazione svoltasi a Venezia, Firenze e, attualmente a Torino è un indice di un certo tipo di allontanamento dal mio territorio. Un artista ha bisogno di stare dove può vedere arte e deve conseguentemente spostarsi.  Massa è una città piccola ma complessa, che vive di uno statuto ibrido fra ciò che attualmente è e le sue aspirazioni. Di fatto l’intera provincia vista nell’insieme è poco sensibile all’esigenze del contemporaneo, con proposte culturali che si rivelano per lo più come offerte estive per turisti. Non c’è insomma una visione lungimirante nel progettare  eventi solidi e proposte innovative che inneschino processi culturali negli abitanti. Siamo riusciti nel 2014 a proporre con la Provincia di Massa Carrara il progetto Dispositivi Inattuali curato da Pietro Gaglianò e Julia Draganovich un progetto di residenze d’artista che ha dato buoni frutti, coinvolgendo la rete di associazioni del territorio (fra cui Semi Cattivi e Castello In Movimento) e chiamando in residenza tre giovani artisti che si stanno affermendo nel panorama artistico non solo italiano (Cosimo Veneziano, Ryts Monet e Diego Cibelli). Quanto di questa città si riverberi nella mia opera è difficile dirlo, è omunque probabile che l’attenzione alla storia, intesa come narrazione, abbia un forte legame con le mie radici, e che al contempo più il reale nella sua datità ci appare povero più l’immaginazione tende ad incrementarsi elaborando strategie alternative di fronte al mondo.

FV: Collabori con Semi Cattivi, una realtà sperimentale legata al teatro, di cui tu segui prevalentemente la parte di supporto musicale. Raccontami questa relazione con il teatro e come questo dialoga, se dialoga, con il tuo lavoro individuale.

GSR: La musica è parte integrante del mio mondo, sia nel suo aspetto formativo, che nelle sue possibilità creative. Lavoro con i Semi Cattivi dal 2007 e sono stato presente in tutti i loro spettacoli. Ci sono state in quest’ambito molte collaborazioni fra cui Giovanni Lindo Ferretti, Massimo Verdastro, Roberto Latini, Paolo Benvegnù, Andrea Chimenti e Alberto Camerini con loro abbiamo partecipato a diversi Festival teatrali, come Sant’Arcangelo Teatri e Volterra, ed anche il Festival Lunatica della Provincia di Massa Carrara.

Il tipo di teatro che promuoviamo si basa sulla ricerca di spazi atipici per questa forma d’arte, come le cave di marmo, o in generale i siti industriali. Il nostro approccio però all’interno di questi luoghi non è quello di invaderli con sovrabbondanza scenica di elementi ma di lasciare che l’interazione fra il teatro e lo spazio avvenga principalmente a livello sonoro; non a caso ultimamente abbiamo lavorato a forme di spettacolo più vicine all’idea di reading, di modo che sia la parola il vero oggetto del teatro e al contempo il ruolo della musica dentro i nostri spettacoli è di primaria importanza in quanto mi trovo, in veste di musicista polistrumentista, all’interno della scena teatrale stessa. Non si tratta perciò di colonne sonore preregistrate e poi semplicemente sincronizzate con la voce recitante, ma della viva coesistenza del musicista assieme all’attore.

di Francesca Vason

Intervista ad Amedeo Desideri

AD: “Sebbene le qualità astratte della forma abbiano un ruolo essenziale per la riuscita del lavoro, l’elemento psicologico, umano, non è a mio avviso di minor rilevanza. È infatti la fusione dell’elemento astratto con quello umano che conferisce all’opera pienezza e profondità di significato.” Henry Moore, Sulla scultura.

Essendo Henry Moore uno scultore, ovvero un uomo che ha lavorato costantemente con la materia, mi vedo possibilmente vicino al suo modo di pensare all’arte.

Leggendo il suo libro dedicato alla scultura, ho riscontrato diverse analogie di pensiero che sono state motivanti per la produzione dei miei lavori. Trovo che questa sua citazione sia molto esplicativa.

FV: Elemento che contraddistingue la tua pratica è l’utilizzo di una macchina robotica, che tu definisci macchina antropomorfica. Trattasi di uno strumento meccanico in grado di avere un ruolo determinante sul risultato finale. Come ti sei avvicinato a tale strumento, come funziona e che influenza ha sull’opera prodotta?

AD: Molto importante per il mio percorso artistico, è stata l’esperienza laboratoriale presso gli Studi d’Arte Cave Michelangelo, dove, oltre ad avere un contatto con gli artisti, ho avuto il primo approccio con il “robot per la scultura”, la macchina antropomorfa. Essa si basa sull’acquisizione di un modello tramite una scansione 3D, che viene tradotta in linguaggio macchina, cioè in coordinate spaziali che portano il robot a realizzare la scultura.

FV: L’altro elemento centrale nella tua ricerca è quello di “isola”, che poi rappresenta lo spazio in cui agisci prevalentemente. Isola fa venire in mente una coordinata spaziale, una massa fisicamente concepibile e tangibile, un elemento con dei confini…

AD: Le isole non sono altro che i livelli creati dalla macchina durante la lavorazione; io le ripropongo alle volte simili, quindi con forme organiche, altre volte astraendole, come nei lavori che saranno in esposizione.

FV: La tua ricerca è sicuramente dominata da uno studio sulla materia da scolpire, le sue volumetrie, la scelta e la messa in relazione di materiali con diverse caratteristiche. Ed è a tale materia che spesso inserisci elementi legati a tematiche contemporanee, alla tua quotidianità, alla percezione di se stessi… penso soprattutto alle opere selezionate per la mostra. In base a cosa crei questo dialogo, queste stratificazioni?

AD: Le forme dei pannelli variano a seconda della tematica. A ogni modo, sono sempre il frutto di un esigenza pulsionale che crea un dialogo con gli elementi figurativi, come in un flusso che si espande e si comprime. Ciò avviene, ad esempio, nel caso di “The Saint”, dove il particolare realizzato in onice è caratterizzato da una lavorazione che, invece di raffigurare lo sguardo, si sviluppa verso l’interno, richiamando simbolicamente un flusso di coscienza. In contrapposizione, le lastre di marmo che fanno da sfondo alla figura intendono evocare un collegamento diretto con l’indagine introspettiva: la volontà è quella di santificare l’ideologia stessa.

FV: Lavorare in questa città, presso la sua accademia, che ripercussioni ha sul tuo lavoro?

AD: Penso che in questo specifico momento della mia vita la città di Massa Carrara sia piuttosto importante, in quanto mi ha fatto entrare in un ottica di arte/artigianato. Questo connubio infatti, è alla base di lavori che non si limitano a essere concettualmente intriganti, per mezzo di studi accademici che ampliano la cultura artistica personale, ma anche morfologicamente ed esteticamente attraenti.

di Francesca Vason

Intervista a Carlotta Premazzi

CP: Everything’s a Remix di Kirby Ferguson è un documentario del 2010. Individuo in questo progetto uno dei riferimenti principali del mio lavoro attuale e della mia ricerca formale.  La scelta è motivata da un duplice fattore: semantico e stilistico. Tutto quel che ci circonda e che produciamo risulta creato da misture biologiche e tecnologiche costituendo combinazioni infinite di significati e forme; questo fattore ha sempre influenzato il mio immaginario, la mia ricerca e la mia metodologia creativa ed è venuto a rafforzarsi da quando la mia produzione artistica si è spostata quasi esclusivamente sul piano digitale e informatico.

FV: Nel video presentato in mostra recuperi un immaginario del passato. Puoi raccontare questo lavoro e in che modo ti sei orientata verso questo tipo di sperimentazione video?

CP: Nel video Mad Project recupero immagini del passato già consolidate nella cultura visuale generalizzata che, grazie a un montaggio non lineare, molto serrato, ricco di sovrapposizioni e soprattutto sempre molto sperimentale, crea una piccola storia visionaria volta a veicolare significati di grande portata.
Il video approccia gli aspetti più privati e reconditi della persona rispetto al proprio inconscio, con le proprie contraddizioni e i vari aspetti della personalità, del doppio in relazione al singolo e del doppio come molteplicità di situazioni oppresse dal conformismo della massa rientrando nella macrocategoria di critica alla società di massa e dello spettacolo, totalitaria e consumistica.

FV: Attualmente su cosa stai orientando la tua ricerca?

CP: Mad Project è molto importante sia nella definizione dell’estetica del mio lavoro che del mio percorso artistico più recente che si è rivolto al Vjing Art e Live Visual e che attualmente sto unendo alle pratiche installative interattive. Sono affascinata e improntata sui processi di creazione piuttosto che sui risultati, sulla sperimentazione continua e sulla contaminazione artistica di vari mezzi e media.

FV: Massa Carrara e in particolare il tempo trascorso in accademia: mi piacerebbe sapere se in qualche modo la città, alcuni suoi luoghi, la storia di questo territorio hanno avuto un peso nel tuo lavoro, anche in vista della scelta di spostarti all’estero.

CP: Il periodo percorso all’Accademia di Belle Arti di Massa Carrara è stato fondamentale nel mio percorso artistico e nella creazione della mia estetica, questo è stato il luogo fisico e metaforico dove ho scoperto nuove forme e tecnologie per creare e parlare di arte, avendo modo di lavorare e scambiare idee con colleghi e fantastici professori e dove ho potuto dare senso a molti concetti e sensazioni fino a quel momento recondite.

di Francesca Vason

Intervista ad Alessia Prati

AP: “…l’alfabeto, invece, per quanto probabilmente derivi da pittogrammi, ha perso ogni rapporto con le cose in quanto tali: esso rappresenta il suono stesso come una cosa, trasformando l’evanescente mondo sonoro in un quieto, quasi permanente, mondo dello spazio.” Walter J. Ong

Nella mia ricerca sono presenti spunti legati alla semiotica, prima tra tutti la tripartizione del segno definita da C. S. Peirce, nonché elementi appartenenti all’estetica del cinema astratto di Ruttmann, Richter, Eggeling, Len lye. Sono tutti i riferimenti che partono dall’intenzione di collegare due ambiti sensoriali diversi, visivo e uditivo, nel tentativo di rendere visiva l’esperienza del suono, passando perlopiù attraverso reazioni che appartengono al mondo scientifico della chimica e della fisica.

FV: Se Walter J. Ong riconosce una sorta di sacralità del suono, Peirce invece si focalizza sul concetto di segnum, inteso come qualsiasi input sensoriale in grado di essere percepito come un oggetto rappresentabile mentalmente. Come si relazione questo al tuo lavoro?

AP: La sacralità del suono è un qualcosa che, con l’evoluzione dell’uomo nella società, è andato perdendosi. Ci sono studi che testimoniano, nelle nuove generazioni, di una progressiva perdita di capacità di riconoscimento musicale, dovuta all’ascolto di file compressi. Questo significa che, rispetto alle precedenti generazioni, gli ascoltatori dei brani mp3, non potranno sentire frequenze prima udibili. D’altro canto, lo stesso Ong sottolinea come inevitabile evoluzione dello sviluppo della scrittura e della stampa una maggior propensione a tradurre ogni esperienza in un dato visivo. Tradurre il suono in segno, e quindi ricorrere a Peirce, mi permette di provare ad afferrare un qualcosa di sfuggevole, nella consapevolezza che, essendo nata nell’era del digitale, l’unica cosa che mi rimane da fare è tradurre l’esperienza sonora in segno, o meglio, in indice.

FV: Il suono è qualcosa di effimero, intoccabile, impossibile da catturare se non attraverso un sistema di registrazione. Il tuo obiettivo invece è proprio quello di catturarlo e tradurlo su supporti comunemente utilizzati nelle arti visive: la fotografia, la carta, lastre di metallo, il video. Come avviene tale traduzione?

AP: Attraverso la chimica, la fisica e la matematica, tutte discipline che mi permettono di restare esterna alla registrazione, influenzandola il meno possibile.

FV: Parte importante del tuo modo di operare è certamente quella legata all’esecuzione, ovvero alla performance. E finora ti sei avvalsa di strumenti che spesso esulano dall’ambito strettamente musicale. Lo fai perché questo ti consente di tracciare stimolazione visiva più fervida nell’immaginario dello spettatore?

AP: Esattamente. In un certo modo, come me, lo spettatore è uomo del suo tempo.

FV: Attualmente lavori tra Pisa e Carrara. In che modo queste due città e nello specifico Carrara influenzano la tua pratica?

AP: Direi che le due città mi hanno influenzato, più che nelle rispettive individualità, nel rapporto reciproco. I 60 km che le separano creano nella giornata di un qualsiasi pendolare una serie di attese, di vere e proprie pause obbligate. Un podcast radiofonico o l’album del mio gruppo preferito equivale giusto al tempo che occorre per arrivare da Pisa a Carrara.

di Francesca Vason

Intervista a Gabriele Dini

GD: Il mio lavoro investiga le prime simulazioni di comportamenti collettivi dei cibernetisti. Un riferimento e’ quello dei Boidi di Craig Reynolds, un software che simula il comportamento di uno stormo di uccelli creato alla fine degli anni ’80. Questo si basa su tre principali regole che ne determinano le traiettorie: separazione, allineamento e coesione. Coordinate che ho ritrovato molto utili anche per la realizzazione dei lavori stessi. Da questa breve sintesi si apre poi un discorso più’ ampio sulla vita artificiale cui mi appoggio spesso.

FV: Molti tuoi lavori sembrano nascere da un’analisi quasi scientifica, matematica, comunque sempre molto logica dei fenomeni sociali e naturali. È evidente il tuo interesse per i fenomeni collettivi, anche in virtù della loro sistematicità e ripetitività… tanto da poter trovare delle affinità con alcuni sistemi artificiali applicati in ambito informatico ad esempio. Come traduci questi aspetti nelle tue installazioni? Penso a lavori come Shell e Breath, ma anche a installazioni come Swarm’s scale o Rhizome.

GD: Sono affascinato da agenti che operano in un ambiente e danno origine a comportamenti più complessi in quanto collettività, questa idea viene supportata nei lavori da materiali diversi, come per Swarm’s Scale o Thread dove ogni filo di erba viene usato per comporre una corda che a sua volta si va ad avvinghiare ad elica su di una ancora più grande fino a creare una fune gigantesca. Altri oggetti cinetici utilizzano elettricità e magnetismo come materiali primi al pari di pietra o legno, e non solo come meri bottoni on/off di funzionamento. Le componenti tecnologiche e il movimento non devono e non vogliono deviare lo spettatore dall’avere a che fare con un oggetto di contemplazione.

FV: Tra i tuoi lavori, abbiamo scelto di presentare CARILLON (i tre enigmi della turandot) in cui rievochi alcune scene della Turandot. Il suono di un carillon, ovvero di un semplice meccanismo cinetico in grado produrre melodia, ispirò il compositore Giacomo Puccini. Qui metti in relazione più elementi, creando una serie di riflessioni e riferimenti specifici rispetto all’opera lirica. Che ruolo hanno questi elementi?

GD: Carillon è un automa flebile. E’ uno strumento per la malinconia, ma è anzitutto un automa e come tutti gli automi vuole simulare una vita. I tre enigmi erano parte della storia e la loro rappresentazione nell’oggetto hanno un ruolo marginale e narrativo. Il lavoro voleva un po’ ricordare i vecchi carillon con le ballerine o le giostre, con un inizio a carica e un finale ad inerzia.

FV: Studiare Nuove Tecnologie a Massa Carrara, in una realtà così caratterizzata, cosa ha significato e comportato nel tuo lavoro?

GD: Sicuramente mi ha influenzato molto. Il corso di Arti Multimediali presso l’accademia di Carrara è stato basilare soprattutto dal punto di vista teorico e di investigazione. E’ un corso che si prende i rischi e i meriti di un educazione interdisciplinare in una zona la cui identità è solidamente legata al marmo. La sperimentazione e l’ibridazione di diversi media era l’unicità del corso.

di Francesca Vason

Intervista ad Alexis Leandro Estrella

ALE: L’immagine della copertina di “London Calling” dei Clash è come una sorta di giovane influenza subliminale su quello che dopo è diventata la mia ricerca artistica, in un periodo della mia vita dove ancora non mi interessavo tanto all’arte.

FV: Distruzione. La distruzione creativa è il fenomeno su cui si basa la tua ricerca. Quali sono i tuoi intenti rispetto a questo e fino a dove pensi di poterti spingere?

ALE: Intendo la distruzione creativa come un atto apparentemente devastante ma paradossalmente generativo (“…dal letame nascono i fiori” cit.). Una delle mie prime indagini a riguardo mi ha portato a creare l’installazione interattiva “Void” (riproposta un paio di giorni fa nella mostra Anabasi, per TU35-Pisa) nella quale metto in gioco il rapporto tra lo spettatore e l’opera d’arte. Partendo dall’idea che senza lo spettatore l’opera non esiste, la presenza del pubblico crea una sorta di cortocircuito oscillando in un equilibrio precario per cui l’opera iniziale viene distrutta dallo stesso fruitore, che a sua volta percepisce questo processo come l’opera “finita”. Invece con “Memorie dell’Orinoco”, uno dei miei lavori recenti, sono partito da un avvenimento storico che aveva delle potenzialità distruttive, ma che per fortuna non ha avuto ulteriori sviluppi. E collegando il contenuto di questa storia con dei pregressi personali ho creato degli oggetti che poeticamente simboleggiano il potere distruttivo di questo evento.

Il mio intento è quello di far scaturire allo spettatore un punto interrogativo che possa essere compromettente nelle sue scelte future.

FV: In Caina 832, video in mostra, prendi in considerazione alcuni edifici della provincia di Massa Carrara demoliti, affrontando un fatto realmente accaduto che ha contraddistinto la storia di molti altri quartieri della città. Puoi raccontare questo lavoro e come ti sei avvicinato a esso?

ALE: L’opera è nata da una open-call da parte delChisinau Civic Center in Moldavia riguardo alle demolizioni e le nuove identità urbane. Partendo da questa tematica ho fatto un po’ di ricerca sul territorio in cui stavo e ho ritrovato il video della demolizione delle case popolari a Carrara, che avevo fatto senza nessuna intenzione artistica. In base al video ho creato una meta-narrazione prendendo degli elementi che comparivano nella ripresa.

FV: In che modo il periodo trascorso a Massa Carrara e in particolare presso l’Accademia ha determinato il tuo percorso artistico? Come mai hai scelto Carrara come luogo in cui formarti.

ALE: Si potrebbe dire che il mio percorso artistico è iniziato a Carrara, visto che precedentemente non avevo mai scelto di studiare arte seriamente. Sono arrivato in Toscana perché la mia famiglia ha avuto la possibilità di scegliere Pisa come luogo di lavoro, e quindi ho avuto la fortuna di scegliere Carrara e trovare nella gente come nella città uno stimolo che tutt’ora continua a essere presente nel mio bagaglio culturale.

Ovviamente i collegamenti ipertestuali son tutti attivi e funzionanti.

di Francesca Vason

Intervista ad Alessio Chierico

AC: Nel tempo ci sono state molte cose che mi hanno inspirato. Tuttavia, di recente mi sono imbattuto in questa frase di Alighiero Boetti, in cui parlava delle sue famose mappe.

“Il lavoro della Mappa ricamata è per me il massimo della bellezza. Per quel lavoro io non ho fatto niente, non ho scelto niente, nel senso che: il mondo è fatto com’è e non l’ho disegnato io, le bandiere sono quelle che sono e non le ho disegnate io, insomma non ho fatto niente assolutamente; quando emerge l’idea base, il concetto, tutto il resto non è da scegliere.”Alighiero Boetti

In questo periodo mi sto interessando a Boetti per un lavoro che spero di poter compiere in tempi brevi, tuttavia questa citazione non riguarda lo specifico della mia ricerca, ma spiega perfettamente il metodo che solitamente mi prefiggo. Sono convinto che nel mondo ci siano già molte cose, troppe, e non vedo l’urgenza di crearne di nuove. Al contrario, credo sia molto importante indagare ciò che esiste già, e anticipare ciò che esisterà o che può potenzialmente esistere. Per questo la tecnologia è al centro della mia ricerca e il metodo concettuale, così come viene spiegato da Boetti, mi permette di far emergere aspetti nascosti della tecnologia. In altre parole, in molti miei lavori preparo una piattaforma concettuale dove la forma che emerge è pura espressione del soggetto della mia ricerca.

FV: Recentemente ti sei dedicato allo studio dell’immagine a seconda del dispositivo su cui essa viene presentata (un pc, un ebook, un tablet…). Qual è la tua indagine rispetto a tali dispositivi? Ti interessa la loro parte tecnico-strutturale o la loro capacità di imprimere un’estetica particolare sul risultato finale?

AC: Partirò da una banalità: come è chiaro a tutti, i dispositivi elettronici sono parte integrante della nostra quotidianità. In particolare le tecnologie dell’immagine hanno un forte impatto nella percezione visiva della realtà e chiaramente questo colpisce anche lo sviluppo e riconoscimento estetico. Alcuni anni fa dei ricercatori di Stanford hanno scoperto che, in media, un americano spende circa il 90% delle ore in cui è sveglio, guardando “rettangoli luminosi” che includono: telefoni, televisori, tablet, computer, e schermi di vario tipo, così come banner pubblicitari. L’impatto di questo tipo di cambiamenti culturali, sarà più chiaro in collegamento con il prossimo esempio. Di recente, su internet girava la foto virale di un vestito i quali colori sono stati soggetto di accese discussioni. In pratica un grande numero di persone era convinto che i colori del vestito fossero blu e nero, ma un numero altrettanto grande di persone, pensava fosse bianco e oro. Molti scienziati hanno cercato una spiegazione a questo caso, che è stato considerato come il più vasto fenomeno di soggettività percettiva. Al momento la teoria più accreditata dice che oltre a vari fattori secondari, il motivo principale di questo fenomeno è dovuto a quanto una persona tende a essere esposta a luce calda naturale o a luce fredda artificiale (il monitor per esempio). Ciò dimostra quanto i dispositivi della rappresentazione che noi utilizziamo, abbiano un ruolo attivo nella nostra percezione estetica. Tendenzialmente l’immagine richiede un immersione nel contenuto e nella narrazione, questo porta a disattivare qualsiasi capacità critica, che possa rendere consapevolezza della tecnologia dell’immagine e dell’impatto che essa ha.

FV:Abbiamo scelto di presentare “Arnulf Rainer for digital performers”, un video realizzato l’anno scorso nel quale rimetti in scena uno dei lavori più discussi di Peter Kubelka. Trattasi, nella versione originale, di 9216 fotogrammi bianchi e neri alternati, opera che il film-maker austriaco non solo ha proiettato ma anche esposto come se fosse un quadro. Kubelka mette in discussione l’idea stessa di cinetica nel cinema: per lui «il fotogramma, mentre viene proiettato, non si muove». Che operazione hai eseguito partendo da questo assunto?

AC: Come prima cosa va detto che il film di Kubelka mi è apparso come in una rivelazione. Non ho particolari interessi verso il cinema, ma credo che l’arte non dovrebbe essere troppo osservata attraverso le sue categorie. Ciò che mi ha particolarmente colpito di questo lavoro è il raggiungimento di un estetica minimale: la riduzione del mezzo cinematografico alla sua essenza di luce e variazione. Nella produzione del suo lavoro, Kubelka ha scritto la sua composizione su carta, ma più che uno story board, ha di fatto creato una partitura, come in musica. In effetti, il meccanismo processuale del medium cinematografico configura la sua profonda natura performativa. Nel mio lavoro non ho avuto interesse a parlare del cinema degli anni ‘60 e le sue tecnologie. Tuttavia mi ha colpito trovare delle forti analogie in ciò che il lavoro Kubelka esprime, e il digitale: in particolare la performatività (computazione), ma anche il codice binario dove per Kubelka è costituito di bianco e nero, e per il digitale da 0 e 1. Tornando a Boetti, ciò che ho fatto è semplicemente mettere le due cose insieme: far performare a sistemi digitali una partitura scritta per il cinematografo.

FV: In che modo il periodo trascorso a Massa Carrara e in particolare presso l’Accademia hanno determinato o influenzato il tuo percorso artistico?

AC: Onestamente, e senza ipocrisia, posso dire che il mio trascorso presso l’Accademia di Belle Arti di Carrara è stato il periodo più fruttuoso della mia formazione. Non a caso il progetto “Arnulf Rainer for digital performers” fu inizialmente abbozzato per uno de corsi che ho frequentato in accademia, e poi ripreso alcuni anni dopo. Riguardo al suo ambito, il dipartimento di Nuove Tecnologie dell’Arte, è senza dubbio una delle eccellenze in Italia. Da un punto di vista didattico ho apprezzato molto il forte approccio teorico/critico, unito ad una ampia offerta formativa. Ad ogni modo, l’aspetto relazionale con la docenza e gli altri studenti è stato uno degli elementi di maggior valore. Infatti il clima in cui ho vissuto, durante quel periodo (2009-2012), era di cooperazione e scambio, dove in altri contesti è facile trovare competizione e sfida. In ogni caso il mio percorso è stato caratterizzato da tante esperienze diverse, e credo che questo abbia avuto una notevole importanza, ma Carrara rimane una città per cui nutro ancora un forte affetto, e in cui l’arte svolge ancora un ruolo fondamentale.
di Francesca Vason

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